domenica 28 giugno 2009

Golpe in Honduras

TEGUCIGALPA - Il presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya dichiara dai microfoni della catena televisiva latinoamericana Telesur di essere stato «rapito e di essere vittima di un complotto». Si trova adesso in Costa Rica, dove è stato condotto con la forza dai militari; la sua presenza in Costa Rica è confermata dal ministro costaricano della Sicurezza pubblica, signora Janina del Vecchio. Il capo dello stato dell’Honduras, alleato del venezuelano Hugo Chavez, è stato bloccato all’alba dai militari all’interno della sua residenza, poco prima dell’apertura delle urne per il contestato referendum di revisione costituzionale.
TENSIONE - Successivamente all'arresto del presidente, testimoni hanno riferito che gas lacrimogeni sono stati sparati contro un gruppo di circa 500 manifestanti davanti al palazzo presidenziale. Inoltre sono stati dispiegato dei blindati non solo nelle strade di accesso alla residenza del presidente arrestato ma anche in altri punti della capitale. Gruppi di militari stanno prendendo, inoltre, il controllo delle sedi di alcuni edifici della pubblica amministrazione. Nella capitale ci sono anche interruzioni nella fornitura dell'energia elettrica.
IN TV - «Ci sei tu dietro a tutto questo?», ha chiesto Manuel Zelaya direttamente al presidente degli Stati Uniti Barack Obama, parlando alla televisione Telesur dal Costa Rica. Zelaya ha anche detto che «se (Washington) non dà il proprio sostegno a questo colpo di stato, può vanificare questo attacco contro il nostro popolo e contro la democrazia». E la Casa Bianca ha risposto respingendo con forza l'accusa: «Non c'è stato alcun coinvolgimento statunitense in quest'azione contro il presidente Zelaya», ha riferito un funzionario sottolineando di rifersi al leader honduregno sempre con il titolo di presidente.
OBAMA «PREOCCUPATO» - Il presidente americano, Barack Obama, si è «profondamente preoccupato» per la detenzione e l'espulsione del presidente dell'Honduras, Manuel Zelaya, e ha chiesto agli «attori politici e sociali» del Paese il rispetto delle norme democratiche e dello stato di diritto. Per Obama, «ogni tensione e ogni disputa dovrebbe essere risolta in modo pacifico, attraverso il dialogo». In precedenza, il presidente del Venezuela Hugo Chavez aveva chiesto al presidente Obama di pronunciarsi contro il golpe in Honduras. Obama dovrebbe prendere una posizione «così come abbiamo fatto noi», aveva detto Chavez in dichiarazioni alla rete Telesur parlando di «colpo di Stato». Quello in corso in Honduras contro il presidente Manuel Zelaya è «un Colpo di Stato troglodita» ha detto il presidente Chavez.
LA UE CHIEDE LA LIBERAZIONE - Intanto i ministri degli esteri dell'Ue hanno «condannato con forza l'arresto del presidente dell'Honduras» Manuel Zelaya chiedendone «l'urgente liberazione». In un documento pubblicato domenica a Corfù, ai margini della riunione dell'Osce, i 27 ministri auspicano un rapido «ritorno alla normalità costituzionale» nel paese centramericano. L’Organizzazione degli stati americani (Osa) ha indetto una riunione d’emergenza per discutere la situazione in Honduras.
LA CRISI ISTITUZIONALE - L'arresto arriva dopo la delicata crisi istituzionale che si era aperta a seguito della decisione di Zelaya di rimuovere il capo di stato maggiore delle forze armate, Romeo Vasques: decisione contestata dallo stesso militare, la cui reintegrazione all'incarico era stata d'altra parte chiesta dalla Corte suprema honduregna. Il pomo della discordia è il referendum di domenica, che dovrà decidere se convocare o no l'elezione di un'assemblea Costituente voluta secondo i sondaggi dall'85 percento della popolazione. E i soliti noti non ci stanno: le élite, l'esercito, le casta politica conservatrice, sono disposti a tutto purché nel paese neanche si parli di Assemblea Costituente. "È bastato solo l'odore di una Carta costituzionale che per la prima volta mettesse nero su bianco diritti civili e strumenti per ottenerli, perché si mettesse in moto la macchina golpista che durante tutta la storia ha impedito giustizia sociale e democrazia in tutto il Centroamerica", spiega lo storico e giornalista Gennaro Carotenuto.
Sequestrati da "uomini incappucciati" gli ambasciatori di Cuba, Venezuela e Nicaragua.
Il popolo si sta opponendo al golpe. El pueblo resiste al golpe.
Per maggiori informazioni: telesurtv

lunedì 15 giugno 2009

Khamenei orders election inquiry, but a "coup" is what everyone is talking about

IL COLPO DI STATO IRANIANO
(Per la traduzione in italiano cliccare qui; translation in chinese click here)
Despite an Interior Ministry ban, tens of thousands of Mousavi supporters take to the streets of Tehran. Khamenei’s order comes as a surprise because he was the one who announced Ahmadinejad’s victory calling it a “divine blessing.” According to Rooz, the Interior Ministry had Mousavi as winner before action by the revolutionary guards stop everything.
Iran’s Supreme Leader, Grand Ayatollah Khamenei, has ordered an investigation into allegations that last Friday’s elections were tainted by fraud. The decision was made public today after Mir-Hossein Mousavi, the candidate who lost to outgoing President Mahmoud Ahmadinejad, filed an official complaint.
Although the Interior Ministry banned rallies in the capital, tens of thousands of Mousavi supporters wearing green bandanas and waving green flags took to the streets in response to their candidate’s call for “peaceful” protest.
Many have been surprised by Khamenei’s decision because he was the first one to declare Ahmadinejad the winner, even before the Interior Ministry, calling the outcome a “divine blessing.”
The 12-member Guardian Council will now take over and examine the complaint. Under Iranian law the council supervises the electoral process and the constitution, but is also know for its literalist interpretation of Islam and its arch-conservative positions.
Since Ahmadinejad’s victory was announced Mousavi supporters, young and old, have poured into the streets of Tehran and other cities. Sporadic clashes with police have been reported.
Overnight anti-riot police and pro-Ahmadinejad vigilantes clashed with students at Tehran University, using tear gas and plastic bullets. Students responded with slogans, stones and Molotov cocktails.
Tens of students were arrested and police seized computers and other electronic equipment. A website close to Mousavi reported that a student protester was killed early Monday during clashes with plainclothes hard-liners in Shiraz. Hundreds of pro-Mousavi supporters have felt the regime’s iron fist, including a brother of former moderate president Khatami.
Mass media have also been affected by the crackdown. Foreign reporters are not being allowed to film demonstrations. Some have been arrested. TV and radio broadcasting out of Iran have been disrupted. Satellite communications and some websites have been blocked.
As for Mousavi, who served as prime minister during the 1980s, the defeated candidate has threatened to hold a sit-in protest at the mausoleum of the late Ayatollah Ruhollah Khomeini, founder of the 1979 Islamic Revolution.
In an interview with Iranian movie director Mohsen Makhmalbaf, published in the Persian-language webzine Rooz, Khamenei’s decision to give the victory to Ahmadinejad amounts to a “coup”. Makhmalbaf, who on Election Day was in contact with Mousavi’s election headquarters, said that according to the Interior Ministry Mousavi had won. He added that the latter had in fact worked on a moderate victory speech.
Information about Mousavi’s victory was also provided to Supreme Leader Khamenei. Just a few hours later revolutionary guards showed up at Mousavi’s election headquarter with a letter from Khamenei, which said that he would not let the green revolution succeed because “Ahmadinejad’s defeat is my defeat.”
For his part United Nations Secretary General Ban Ki-moon said he was “dismayed by the post-election violence, particularly the use of force against civilians, which has led to the loss of life and injuries.” He called “on the authorities to respect fundamental civil and political rights, especially the freedom of expression, freedom of assembly and freedom of information.”
To date more than 50 dead. The dead are rising. Iranian TV channels do not transmit the truth.
All foreign journalists sent away from the country.


martedì 26 maggio 2009

Pandillas

Gruppi che si muovono silenziosi e rumorosi al contempo, nelle periferie, lontani dai centri più “in” di Milano. Sono in banda, sono tanti, sono giovani e giovanissimi. I giornali ne parlano poco, ancor meno le tv. Eppure chi abita dove loro si ritrovano, dove loro agiscono, sanno bene che non sono fantasmi né leggende metropolitane, ma sono una costante assai presente. Lorenteggio, Giambellino, Crescensago, Stazione Lambrate, Stazione Centrale: sono solo alcuni dei luoghi da loro più frequentati. I nomi delle loro bande evocano film, evocano una realtà che è ben presente in centro e sud america ed anche negli States. Ma oggi sono anche qui, in Italia, specialmente a Milano, Genova e Roma, a fare banda, a scatenare guerriglia quando ne sentono il bisogno, quando l’onore viene offuscato e deriso. Perché così si comporta una banda, perché così fanno in ogni parte del mondo ove sono presenti, perché questo è il codice da seguire. I nomi che rieccheggiano nelle periferie metropolitane di Milano, nella notte, sono famosi: Latin Kings, Comando, Chicago, Maras 18, Mara Salvatrucha 13, Soldao Latinos, Vatos Locos, Neta e i nuovi entrati Trinitaria e New York. Le origini affondano radici in Ecuador, in El Salvador, in Perù, in Uruguay, a Portorico, nelle comunità centro e sud americane presenti negli USA. Oggi sono qui anche da noi e di solito non fanno molto notizia, sia perché operano nelle periferie più ghettizzate sia perché gli scontri, i pestaggi, le botte, avvengono quasi sempre fra di loro, senza coinvolgere gente comune. Certo, poi ci sono gli “errori”, come qualche mese fa, quando il gruppo MS 13 scambiò un normalissimo ragazzo sud americano per un appartenente alla Maras 18, e lo pestarono ferocemente fino a causargli la perdita di un occhio…
Ma chi sono i componenti di queste pandillas? Molti sono i sud americani, la maggioranza nati in Italia, seguiti da italiani e africani. Praticano forme di racket, atti vandalici, pestaggi, furti e rapine. Hanno una chiara gerarchia al loro interno, hanno un’identità comune, sfoggiano loro codici, loro colori nel vestiario, loro tatuaggi, marcano un territorio. Girando sulle metro di Milano non si possono non vedere. Musica rap, casse di birra su casse di birra, bombolette spry, vestiti hip-hop, bandane con i colori d’appartenenza. Si formano nei quartieri dormitorio, nelle periferie più buie, a scuola, provengono quasi tutti da situazioni di degrado, da famiglie problematiche, da quartieri difficili, da solitudini profonde. Emergono così facendo gruppo, facendo spalla contro spalla, si sentono realizzati, si sentono riconosciuti, si sentono forti all’interno della banda, non di rado sentono nella pandillas quella famiglia che non hanno mai avuto o che hanno avuto sfasciata. Ma c'è di più: questi giovani, sulla scia del linguaggio universale che propone la loro musica, il reaggeton, diffondono e credono in valori come giustizia, fratellanza, pace e amicizia. Combattono il razzismo che essi stessi subiscono.
Gruppi di certo complessi, oscillanti fra legalità e illegalità, giustizia e criminalità.
Andate, andate a fare un giro a Milano, in quella Milano che non è boutique firmate, che non è arte, che non è turismo. Venite tra i palazzoni di cemento gli uni vicino agli altri, venite all’ultima fermata della metro e del bus, venite nei quartieri duri lasciati al loro degrado. Lì troverete tutte queste pandillas, quiete nel loro caos giornaliero. E sperate solo che un giorno non decidano di dichiarare guerriglia verso il centro, verso il vostro quartire per bene, perché la battaglia sarebbe cruenta.

venerdì 8 maggio 2009

Cos'è accaduto alla Persia?

Teheran, la capitale dell’Iran, è una vivace metropoli soffocata dall’inquinamento, situata alle pendici dei Monti Elburz. Molti dei suoi edifici sono costruiti in mattoni chiari e circondati da cancellate di metallo. Qui sopravvivono ancora alcuni splendidi parchi di eredità persiana e dietro le mura dei palazzi fioriscono giardini privati con alberi da frutto e fontane, vasche per pesci e voliere. La lunga storia dell’Iran è costellata di guerre, invasioni e martiri. Ogni tragedia può essere ricondotta ad un’unica ragione: la posizione geografica. L’Iran è la terra d’incontro tra Occidente e Oriente, dove per 26 secoli i due emisferi si sono fusi attraverso commerci, scambi e scontri culturali. Nel frattempo la posizione strategica e la ricchezza del paese attirarono anche una lunga serie di invasori: l’Impero Persiano è stato fondato, distrutto e ricreato più volte, prima di scomparire definitivamente. Tra i vari conquistatori vi furono i Turchi, Gengis Khan e i Mongoli, ma soprattutto le tribù arabe che, infervorate dalla religione islamica, nel VII secolo sconfissero definitivamente l’Impero inaugurando un’età dell’oro musulmana. Da allora gli iraniani si sono sempre sforzati di distinguersi dal resto del mondo arabo e musulmano. Sulla mentalità degli iraniani sembra incombere un importante retaggio storico: i diritti dell’uomo e il concetto di libertà potrebbero essere nati non con gli antichi Greci ma in Iran, con Ciro il Grande. Egli fu l’artefice di quello che è stato definito il primo Impero tollerante dal punto di vista culturale-religioso, che arrivò a comprendere oltre 23 popoli diversi. Al suo apogeo la Persia fu considerata la prima superpotenza del mondo, comprendeva gli attuali stati di Iraq, Pakistan, Afghanistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turchia, Giordania, Cipro, Siria, Libano, Israele, Egitto e il Caucaso. Grande è oggi la voglia di tornare ad essere tali.
Poi arrivò il 1953, una data cruciale. In quell’anno venne destituito il primo ministro iraniano (Mohammad Mossadeq) da parte dell’Inghilterra e della CIA. Il primo ministro aveva posto fine alla presenza britannica in Iran con la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Inghilterra e CIA allora architettarono un colpo di stato destituendo il primo ministro e imponendo lo scià Mohammad Reza Pahlavi, con poteri assoluti. Quest’ultimo se da una parte magnificava Persepoli e Ciro il Grande, dall’altra portò costumi e interessi economici occidentali; e rese molto attiva la polizia segreta. Questa rapida occidentalizzazione e repressione cominciò a suscitare vaste polemiche fra gli iraniani, fino a giungere, alla fine degli anni ’70, alla rivoluzione di Khāmeneī. Il riemergere della religione fu sentito come un ritorno alla purezza. Certo, gli iraniani non potevano aspettarsi che l’Islam sarebbe stato imposto con tanto rigore (esplicito un precetto del Corano che dice “la religione non ammette costrizione”) , né si aspettavano che il clero assumesse il controllo dell’economia, dell’amministrazione pubblica, dei tribunali, delle attività quotidiane e che avrebbe introdotto punizioni di stampo medievale quale l’impiccagione, la lapidazione, il taglio degli arti. E, non da ultimo, la cancellazione di ciò che fu perisano per far risaltare ciò che è islamico. Oggi non sono pochi gli iraniani che sentono quanto sia orribile essere intrappolati nel proprio paese e che, ironia della sorte, riscoprono con gioia le origini persiane, i loro legami con ciò che fu la grande Persia.
Ma, nel frattempo, la repressione in questa nazione continua, in nome di una religione manipolata per piegarla a fini politici e di potere. L’ondata delle esecuzioni non si ferma e con essa quella delle restrizioni della libertà e dei diritti.

lunedì 27 aprile 2009

Lettera a me stessa

Questa volta vi porterò in un viaggio particolare. Niente viaggi esteri, niente viaggi nella società italiana…questa volta, forse la prima, il viaggio è in me. Oggi ho aperto l’album delle foto. Ne ho tante, molte di quando ero piccola; questa qua di fianco ne è un esempio. Guardo quelle foto e incomincio a parlare a me stessa, a quella bambina piccola piccola. Ma non capisco, non riesco proprio, non capisco perché non mi escono parole di gioia, di contentezza. Guardo la piccola Aly che ero, con le lacrime agli occhi, l’accarezzo, la prendo in braccio, le parlo… Aly, ora sei così piccola, così serena, senza problemi…passerai dei begli anni, spensierati, avventurosi, felici, il mondo ti sembrerà un luogo enorme e da scoprire…le delusioni ci saranno, certo, ma le passerai bene, tranquilla… Poi arriverà un giorno preciso, di un mese preciso, di un anno preciso, e tutto comincerà ad incrinarsi e non si sistemerà più…le incrinature aumenteranno e diverranno spaccature irreparabili…e soffrirai, molto…i sogni, i progetti, verranno presi, strappati e bruciati…alcune persone se ne andranno senza volerlo, altre per scelta in modo cinico ti volteranno le spalle…e cadrai ripetutamente per inseguire chi neanche se ne accorge e di certo non lo merita, per inseguire futuri preclusi…per inseguire ideali sotto un orizzonte di fuoco…e le ferite aumenteranno, diverranno sempre più profonde, incurabili…finchè anche il corpo cederà, quello stesso fisico che con divertimento facevi arrampicare sugli alberi, che hai portato su tante terre straniere…l’anima sempre più spesso urlerà il dolore, gli occhi saranno sempre più spesso fissati al cielo o su un punto qualunque dell’orizzonte…ma non saranno quelli d’un viaggiatore che non vede l’ora di ripartire, ma saranno quelli di chi fissa da dietro le sbarre… E mentre ti parlo, Aly, ti tengo in braccio addormentata, con la tua piccola mano che stringe la maglietta…e vorrei chiederti scusa se il mio futuro non è proprio come lo desideravi…e mi sento in colpa…e mi sento sempre più stanca Aly, sempre più disillusa…mi aggrappo alle persone a me care come un naufrago s’aggrappa disperato ad un salvagente, perché sono l’unica cosa che non mi fa andare a fondo… Sai Aly, la voglia di vivere a pieno, ogni secondo, quella non è passata, è rimasta una costante, solo il contesto è cambiato… Aly… Aly…se tu sapessi i dolori, le sofferenze…così profonde che le gioie s’eclissano…e il capire che siamo isole, che dobbiamo contare solo su noi stessi, finchè anche il noi stessi non ci tradisce…
Mi spiace Aly, mi spiace molto…

venerdì 24 aprile 2009

Festa della Liberazione

Il 25 Aprile 1945 l'Italia veniva liberata. I fascisti e i nazisti perdevano, i Partigiani e le forze dell'Alleanza vincevano. L'Italia tutta esultava per la vittoria. Il sangue di tutti i Partigiani caduti, di tutte le vittime preda dei rastrellamenti, di tutti i giovanissimi di 15, 16 anni morti per la Patria libera, non era stato vano. L'Italia vera aveva vinto. E qui la storia di una nazione diventa storia personale, storia di ricordi raccontati che la mia mente non potrà mai cancellare: mio nonno materno che esulatava dopo anni e anni in collegi statali per poveri a convivere con le bombe, la fame, la disciplina ferrea; i fratelli di mia nonna materna che se la ridevano dopo aver disertato le armate del Dux e per questo erano finiti in carcere a Milano. E la gioia generale di tutta la mia famiglia che di certo non rimpiangeva il fascio. E poi, permettetemi, un ricordo va al mio bisnonno materno, morto troppo giovane per vedere la Liberazione, morto per la malaria presa durante la campagna d'Africa e per gli stenti e la fame che la vita sotto il fascismo procurava.
Non posso che concludere gridando viva l'Italia liberata! Viva i Partigiani! Viva mio nonno e i miei zii!



mercoledì 15 aprile 2009

You shall rise

Perchè, come cantano i Mattafix, si deve avere sempre la forza per risollevarsi, sia per un dolore, sia per una delusione, sia per una sconfitta...sia per un terremoto...sia per una "malattia" che ci si trascina dietro da molto... You may never know, if you lay low, lay low, you shall rise... Guarda la nazione attraverso gli occhi del popolo, guarda le lacrime che scorrono come fiumi dai cieli, dove sembra che ci siano solo confini, dove gli altri si girano e sospirano, tu devi sollevarti... See the nation through the people's eyes, see tears that flow like rivers from the skies, where it seems there are only borderlines, where others turn and sigh, you shall rise...

lunedì 6 aprile 2009

La terra ha tremato in Abruzzo

Liberazione: Non solo destino. Terremoto in Abruzzo, oltre 150 morti finora accertati, 1500 feriti, 70mila sfollati. A L'Aquila crollano anche edifici recenti come la casa dello studente; la maggior parte delle case è inagibile, incluso l'Ospedale; intere frazioni completamente distrutte. I danni dei terremoti si potrebbero prevenire e limitare con costruzioni antisismiche. E’ questo il piano casa di cui il Paese avrebbe davvero bisogno.
L'Unità: Interi paesi distrutti, migliaia di volontari in marcia. Sisma a L'Aquila: 180 morti e 17mila senzatetto. Forte scossa di assestamento, sentita anche a Roma.
Il Corriere della Sera: Terremoto in Abruzzo: oltre 100 morti, allarme sfollati. Paesi distrutti, edifici crollati. In 100mila senza casa.
Il Messaggero: Terremoto in Abruzzo, almeno 100 morti, paesi distrutti, migliaia gli sfollati. Rase al suolo Onna, Paganica e Tempera. Atti di sciacallaggio. Fra le vittime 8 bimbi. Si scava tra le macerie, decine i dispersi. Il sisma alle 3.32 di magnitudo 5,8. Ancora scosse.
Libération: Italie: Les habitants, hagards, craignent les répliques du séisme. La terre a tremblé dans les Abruzzes dans la nuit de dimanche à lundi, a fait plus de 92 morts, selon un bilan encore provisoire, et d'importants dégâts matériels.
Times: Death toll in Italy earthquake rises above 90. Devastating quake hits the medieval town of L'Aquila, north of Rome, as row brews over lack of action after unofficial warnings.
Guardian: Italian quake kills 90 and leaves hundreds trapped. State of emergency declared after tremor of 6.3-magnitude, 70 miles north-east of Rome.
Der Spiegel: Katastrophe in Italien. Erdbeben in den Abruzzen macht Zehntausende obdachlos. Ganze Orte gleichen einem Trümmerfeld: Nach dem verheerenden Erdbeben in Mittelitalien wurden bisher mehr als 90 Tote geborgen - die Helfer vermuten viele weitere Leichen unter den Ruinen. Der Zivilschutz rechnet mit 50.000 Obdachlosen, Ministerpräsident Berlusconi rief den Notstand aus.
Die Süddeutsche Zeitung: Mehrere Erdstöße haben die italienische Region Abruzzen erschüttert. In der Hauptstadt L'Aquila stürzten Häuser ein, Dutzende Bewohner kamen ums Leben. Viele Menschen flüchten verängstigt aus der Stadt - und die Retter suchen fieberhaft nach Überlebenden.
El Mundo: Hay al menos 90 fallecidos y decenas de desaparecidos. El número de fallecidos por el seísmo en Italia ronda ya el centenar. Berlusconi ha decretado el estado de emergencia ante la catástrofe, que ha dejado a unas 50.000 personas sin hogar.
Xinhua net: 意大利中部地区发生强烈地震 至少27亡40人失踪
Jornal de Brasil: Sobe para 92 o número de mortos após o terremoto na Itália de madrugada. O epicentro do tremor de 6,3 graus na escala Richter foi a 95 km de Roma e 10 km de profundidade. Vinte e seis cidades foram atingidas na região central do país.
New York Times: At Least 92 Die in Earthquake in Italy. 40,000 to 50,000 Left Homeless in Mountainous Region. The 6.3-magnitude earthquake shook the Abruzzo region east of Rome on Monday, seriously damaging buildings. Aftershocks complicated rescue efforts.
( Rifondazione Comunista ha organizzato Brigate di solidarietà attiva con le popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo e altre modalità d'aiuto; per tutte le informazioni andate al sito: http://home.rifondazione.it/ )

venerdì 27 marzo 2009

Vi racconto di Claude... - 2 parte

La cena viene servita. Oltre ai vari antipasti, il piatto forte sono tre ciotole che contengono riso, fagioli neri con pezzi di carne… tutto squisito, da leccarsi i baffi! Alla fine della cena io e Claude torniamo a discorrere in francese.
Ricomincia da “Ero arrivato al confine del Congo…”. Saluta il suo amico tassista, si guarda davanti e sa che da lì in poi sarà solo. A 14 anni è già da solo, ha la propria vita nelle sue mani. Non riesco a non fare paragoni: mi domando io, a quell’età e in quella situazione, cosa avrei fatto, come avrei reagito. Guardo i nuovi quattordicenni della mia città e penso sconsolata che avrebbero inizato a piangere e chiamare “Mamma”. Claude sorvola sui suoi sentimenti, devo tutti leggerli negli occhi, nelle sue espressioni; forse ancora troppo doloroso ricordare, forse ancora troppo aperta quella ferita. E così, dal Congo alla Libia, il racconto si fa veloce. “Con degli autobus, a piedi, con camion, sono arrivato in Libia”. Non chiedo i dettagli, mi sentirei troppo ficcanaso. Dalla Libia in Italia mi dice che non è difficile, basta avere dei soldi. Paga le guardie libiche, ne paga altre, paga coloro che lo trasporteranno sulle coste italiane, a Lampedusa per l’esattezza. Arrivato il giorno stabilito sale sul gommone. “Eravamo in tanti, non c’era cibo né acqua” mi dice, e comincia la traversata alla ricerca del rifugio politico. “In sei morirono” continua con quella sua voce pacata e rispettosa “Non ce l’hanno fatta, abbiamo dovuto buttarli in mare, per forza, non potevamo tenere dei cadaveri lì con noi”. Mentre parla è come se stesse cercando di giustificarsi, come se dovesse dare motivazione di quel gesto; faccio un mezzo sorriso, lo rassicuro, gli dico che era inevitabile, che hanno fatto bene. Poi, stremato e stanco, arriva a Lampedusa. Qui inizia prima la detenzione in un CPT, dopo, molto dopo, gli viene riconosciuto lo status di rifugiato politico, e infine inizia il balletto della ricerca di un lavoro, per vivere. “Quando vedono che ti iscrivi al Sindacato molti ti lasciano a casa” specifica da subito, con una rinnovata grinta; il mio amico, seduto vicino a Claude fa sconsolatamente ciondolare la testa avanti e indietro: è una realtà innegabile, se un extracomunitario al lavoro inizia a intendersela con i Sindacati, i capi lo guardano malissimo. Claude ha la fortuna di incontrare, tra tutti, anche brave persone, che l’aiutano a trovare casa, a districarsi nel lavoro e nella vita di tutti i giorni; e che gli fanno sentire che non è solo.
“Io vorrei studiare…” mi dice, con voce convinta “Io vorrei continuare gli studi”. Il mio amico al suo fianco aggiunge “Claude, lo sai che ora come ora devi pensare al lavoro per pagarti il cibo, la casa…”
Ma Claude non demorde “Sì, lo so, però…”
Cosa chiede di così innaturale Claude? Una cosa scontata per tantissimi ragazzi della mia età: studiare. Ma a lui non è concesso, lui deve per forza lavorare.
“Poi” continua “Vorrei provare a tornare in Congo, là ho tutti i miei attestati di studio, magari servirebbero e poi, un missionario m’ha detto che mamma è ancora viva…”
La notte pian piano avanza, il buio fuori è scuro, solo la luce della nostra abitazione lo rischiara.
Prima di salutarci, Claude mi fa una confidenza, abbozzando un sorriso “Sai…a casa dormo sempre con la luce accesa… ho paura, ho paura del buio…”
Mi viene da sorridere, di un sorriso triste e malinconico, amaro e buio, buio proprio come la notte, quella notte che Claude ha visto in tanti modi diversi e che io non posso neanche immaginare.

venerdì 20 marzo 2009

20 Marzo 1994: il più crudele dei giorni

Thanks Ilaria Alpi, grazie perchè sei stata una delle prime persone che mi ha fatto capire che bisogna non dimenticare mai... grazie di tutto.
"Il nostro, come disse Sciascia, è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare" -Ilaria Alpi-
Sono passati 15 anni dal tragico agguato in cui, a Mogadiscio, IlariaAlpi e Miran Hrovatin sono stati assassinati.
Prima della morte di Ilaria vorrei che ricordassimo la sua vita così breve e così intensa. Ricordare il suo impegno e la sua passione per i paesi, in particolare per l'Africa, tormentati dalla fame, dalla povertà e dalle guerre chei vari “signori”, sostenuti dai paesi occidentali, continuano ad alimentare: pensiamo a che cosa sta ancora accadendo proprio in Somalia anche in questo periodo. Tutti i suoi lavori testimoniano questa sua “vicinanza” alle donne, ai bambini, prime vittime delle ingiustizie dello squilibrato rapporto nord sud del mondo: non c’è servizio di Ilaria che racconti anche le questioni “grandi” come la guerra, la violenza, senza partire dalla vita quotidiana delle persone, con una volontà di conoscere e far conoscere, con una sensibilità, partecipazione al dolore e alle sofferenze evidente e coinvolgente. Un modo, il suo, di fare giornalismo, lontano dai frastuoni della celebrità, vicino a chi soffre. Un giornalismo e una storia, la sua, che raccontano di possibili inquietanti intrecci tra cooperazione e criminalità, tra aiuti allo sviluppo, traffico di armi e pratiche di smaltimento illegale di rifiuti tossici. “Dove sono finiti i 1400 miliardi della cooperazione italiana?” aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarà il suo ultimo viaggio. Un giornalismo profondamente etico e rigoroso come scelta di conoscerei fatti di raccontarne la verità, di suscitare indignazione econtribuire così a cambiare questo mondo. E proprio per questo un modo di fare giornalismo più efficace. Anche “pericoloso” per chi ha interesse a che il mondo rimanga così com’è, profondamente ingiusto. Per chi ne ha commissionato l’omicidio, come si legge nell’ordinanzadi prosecuzione delle indagini con la quale il dottor Emanuele Cersosimo ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica di Roma il 2 dicembre 2007: “….la ricostruzione della vicenda…..quella dell’omicidio su commissione, assassinio posto in essere per impedire che le notizie raccolte dalla Alpi e dal Hrovatin in ordine ai traffici di armi e dirifiuti tossici avvenuti tra l’Italia e la Somalia venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica…..”. Le diverse indagini della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentari hanno acquisito materiali, documentazioni, testimonianze dalle quali si può arrivare alla verità, a tutta la verità. E, invece, non si è voluto farlo, addirittura si sono ignorati fatti, si sono occultati documenti, si sono dette bugie, si è depistato, non si sono fatti tutti gli accertamenti necessari. L’ultimo esempio è riferito all'auto Toyota pick up che la commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’avvocato Carlo Taormina ha fatto giungere dalla Somalia con la collaborazione di Giancarlo Marocchino e presentato come quella dell’agguato mortale. Le tracce di sangue rinvenute e appartenenti a una persona di sesso femminile non sono di Ilaria: è quanto emerso dall’analisi comparativa del DNA con quello di Giorgio e Luciana Alpi disposta dalla Procura di Roma (come richiesto dal giudice Cersosimo al 25° punto dell’ordinanza citata) e che la maggioranza della commissione non aveva voluto fare. Questo risultato “incontestabile” demolisce le perizie compiute sulla Toyota e anche le conclusioni della maggioranza della commissione che su di esse erano in gran parte fondate. Anche questo risultato conferma che il caso non è chiuso ma apertissimo e da ragione alle relazioni di minoranza che hanno considerato le conclusioni della maggioranza inaccettabili e gravi proponendo una verità (e non la verità) senza prove o peggio falsificandone la lettura, non esitando nemmeno ad offendere la memoria di Ilaria e Miran, la loro vita, la loro professionalità. Nonostante ciò si sa ormai quasi tutto su quel che accadde in quei giorni a Mogadiscio, sul perché di quell’esecuzione, perfino su chi faceva parte del commando. Ma a chi ha armato quel gruppo di fuoco, ai mandanti, non si è ancora arrivati e gli esecutori sono ancora impuniti.
Perché alla verità non si è ancora arrivati? Chi non vuole la verità? Perché?
Luciana e Giorgio Alpi in questi 15 anni hanno lottato con tutte le loro energie per la verità e per la giustizia: 5479 giorni, spesso in solitudine, passati nel dolore e nell’impegno interpellando tutte le persone, le istituzioni che dovevano e potevano arrivare a mandanti ed esecutori e assicurarli alla giustizia. Hanno lottato e continuano a farlo.
Li ringraziamo perché il loro esempio è stato per tutti noi il motore per lottare, per cercare la verità.
Mariangela Gritta Grainer, portavoce associazione Ilaria Alpi

giovedì 19 marzo 2009

Senza Parole

Il ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, tuona: "Gli studenti dell'Onda sono guerriglieri!" O.o
Non ho parole...scusate, ma non aggiungo altro perchè la demenzialità e l'idiozia di questa affermazione dice tutto.
Beh, se poi essere guerriglieri vuol dire battersi per questioni giuste, per difendere i propri diritti e la propria istruzione pubblica, allora fieri di essere guerriglieri!
(P.S. A Bergamo qualche mese fa Forza Nuova ha sfilato con caschi, mazze, bastoni e spranghe... lì perchè nessuno ha detto niente??)

venerdì 13 marzo 2009

Visas for 70,000 Bangladeshi immigrants revoke

Questo articolo è per far notare come l'immigrazione non sia solo una "questione" italiana, per mostrare a chi non sa guardare al di là del proprio naso che tutto il mondo è il paese. Perchè in qualunque angolo del mondo andiate ci sarà sempre l'immigrato da stigmatizzare e crocifiggere, e ci sarà sempre l'egoismo traboccante di questa società capitalista.
(Per l'articolo in italiano cliccate qua: "Revocati 70mila visti a immigrati bangladeshi").

Malaysia has revoked work visas for 70,000 Bangladeshis who were to begin arriving this week in response to a public outcry about migrants taking Malaysian jobs.
The would-be immigrants were to be employed in manufacturing, agriculture and construction, and would have joined an estimated 500,000 Bangladeshi already in the country, out of an estimated three million Asian migrant workers in the whole country.
These “workers are from poverty-stricken families and had to raise about 200,000 Bangladeshi taka [or about US$ 2,500] to send their son to Malaysia in the hope of escaping poverty,” said Irene Fernandez, executive director of Tenaganita, an NGO that helps migrant workers in distress. For purpose of comparison she noted that a primary school teacher in Bangladesh earned only about 800 taka (US$ 13) a month.
Malaysia’s about-face on the 70,000 visas is the direct result of the global economic crisis which is having major impact on the local labour market.
“Because of the downturn, factory owners are cutting costs by letting locals go and keeping foreigners because they are cheaper,” said Govindasamy Rajasegaran, secretary general of the Malaysian Trades Union Congress. “If this trend continues, by June we expect 400,000 local workers to be laid off.”
But foreign workers are also affected by cuts in jobs and lay-offs. Most are repatriated but many choose to go underground and take underpaid jobs just to avoid going home.
Under current rules, migrant workers are given 30 days to secure work after arriving in Malaysia or they are forced to leave the country.
“In theory, if there are no jobs they are repatriated, but in practice they . . . easily find extremely low-paid jobs that are shunned by locals,” Ms Fernandez said.