lunedì 30 novembre 2015

TOKYO Vice - on the streets of Japan obscure

Meeting with Jack Adelstein, American journalist and writer author of Tokyo Vice, startling report on the Japanese Yakuza and now, he threatened with death, he lives with his armed escort.
Incontro con Jack Adelstein, giornalista e scrittore americano autore di Tokyo Vice, impressionante reportage sulla Yakuza giapponese e che oggi, minacciato di morte, vive sotto scorta.
di Junko Terao

TOKYO
They arrived at night, in the dark, with tattooed arms hidden and gloves to hide the missing fingers. The first aid, a few hours after the tsunami that on March 11 devastated the northeast coast of Japan, brought them the men of the yakuza.
Sono arrivati di notte, con il buio, le braccia tatuate coperte e i guanti a nascondere le dita mancanti, per non dare nell’occhio.  I primi soccorsi, poche ore dopo lo tsunami che l’11 marzo ha devastato la costa nordorientale del Giappone日本, li hanno portati gli uomini della yakuza ヤクザ. Decine di camion carichi di medicine, coperte, cibo, acqua potabile e torce elettriche sono partiti da Tokyo diretti nel Tohoku. Non solo. Nei dieci giorni successivi alla catastrofe, a mantenere l’ordine nei rifugi allestiti per i sopravvissuti c’erano più gangster che poliziotti. Pare che per scoraggiare gli sciacalli sia più efficace un tatuaggio in bella mostra che una divisa con distintivo. Come e perchè i gruppi che controllano il crimine organizzato si siano dati tanto da fare ce lo spiega Jake Adelstein, giornalista diventato suoi malgrado un esperto di yakuza, paladino (come recita la sua firma) e autore di Tokyo Vice, uscito in Italia per Einaudi Stile Libero (466 pp.)
"I vari gruppi, ce ne sono 22 riconosciuti, si presentano come associazioni benefiche e seguono un codice d’onore che ha come principio di base l’assistenza ai più deboli. Chiaramente non c’è solo una spinta filantropica dietro la mobilitazione seguita allo tsunami, ma posso assicurare che il codice d’onore é rispettato dalla maggior parte degli yakuza. La criminalità organizzata ha una storia di soccorsi post-catastrofe alle spalle: la prima volta è intervenuta nel 1964, dopo il terremoto Niigata, poi nel 1995 a Kobe - dove peraltro la sede della Yamaguchi-gumi, che con 40mila uomini é il gruppo più numeroso di yakuza, occupa un intero quartiere". A picture of a big operation, no doubt, especially useful to secure a slice of the reconstruction, as the building and the industry in which the yakuza has become so powerful after the war, when there was a whole country to be rebuilt.
A una grande operazione d’immagine, non c’è dubbio, utile soprattutto ad assicurarsi una fetta della ricostruzione, dato che l’edilizia e il settore con cui la yakuza ヤクザ è diventata cosi potente nel dopoguerra, quando c’era un intero paese da rimettere in piedi. Oltre a fornire i soccorsi, infatti, pare che gli yakuza ヤクザ si siano presentati puntuali con i mezzi necessari a rimuovere i detriti delle città distrutte dall’onda. Da li, allungare le mani sulla cuccagna di appalti è questione di poco. Cosi è successo in passato e cosi sta accadendo nel Tohoku, come ha rivelato un inchiesta di giugno del settimanale Sentaku: l’urgenza di ridare le case agli sfollati farà chiudere un occhio a chi, in teoria, dovrebbe vigilare sull’assegnazione degli appalti. 

Abbiamo incontrato Jake Adelstein a Tokyo 東京 in un tranquillo quartiere residenziale, nella casa da dove fa la spola con gli Stati Uniti. Dal 2005 la sua famiglia, moglie giapponese e due figli, vive li per ragioni di sicurezza "Farli restare sarebbe stato troppo pericoloso" spiega lui, che dal 2008 vive protetto dalla polizia e quando è in Giappone 日本 è scortato da una guardia del corpo, un ex boss della yazuka senza un mignolo. La storia di come é arrivato a questo punto la racconta in Tokio Vice, un po’ autobiografia, un po’ romanzo hardboiled, che svela i retroscena del giornalismo investigativo in Giappone 日本 ma, soprattutto, un tuffo nell’underworld del Sol Levante, “per vedere cosa c’é davvero sotto la superfice di una società apparentemente pacifica e tranquilla”. In quel mondo buio, violento, che puzza di alcool e fumo, tra ragazze vendute, stuprate e morte ammazzate, strozzini, personaggi scomodi ‘suicidati’ e detective insonni, Adelstein ha vissuto per dodici anni, dal 1993 al 2005, come reporter dello Yomiuri Shimbun, il quotidiano più letto nel paese, primo giornalista straniero ad entrare nel gotha dell’informazione nipponica. "Per mia fortuna sono Stato subito assegnato alla sezione di polizia che seguiva i crimini legati alla yakuza", racconta Adelstein. Allora, però, non immaginava il peso che la mala giapponese avrebbe avuto nella sua vita. Allora non aveva ancora idea di chi fosse Tadamasa Goto 後藤 忠政.
"Poco prima dl lasciare lo Yomiuri, nel 2005, stavo lavorando a una storia davvero grossa: avevo saputo che quattro anni prima il Capo della Goto-gumi, la più pericolosa delle affiliate alla Yamaguchi-gumi, era volato negli Stati Uniti e aveva avuto un trapianto di fegato al Centro tumori della Ucla. Non ho mai scoperto davvero come ha fatto, ma è passato dall’ 85mo al primo posto della lista, ottenendo un fegato nuovo in sei settimane, quando normalmente ci vogliono almeno tre anni. La Ucla si è giustificata dicendo che il fegato era “scadente”. Penso che li qualcuno sia diventato molto ricco organizzando tutta l’operazione. Più tardi ho scoperto che tra il 2000 e il 2004 altri quattro yakuza hanno subito trapianti nello stesso ospedale, e hanno pagato in contanti. L’ Fbi gli ha procurato il visto in cambio di informazioni sulla Yamaguchi-gumi e sulle sue ‘front company’ negli Stati Uniti. Li la Yakuza ha molti interessi e molti soldi nelle banche americane. So che Goto, però, una volta avuto il fegato, ha fornito solo un quinto dei nomi promessi all’Fbi".
Doveva essere la sua ultima inchiesta, la sua “tesi di laurea” per chiudere in bellezza un’esperienza eccitante quanto dura e sfiancante. Invece un giorno riceve la visita di un uomo di Goto con un messaggio chiaro, che lascia poca scelta: o tu cancelli la storia, o noi cancelliamo te e la tua famiglia. Quella di non scrivere più sui giornali giapponesi, se non sotto pseudonimo, è stata, quindi una scelta obbligata. Ma Adelstein ha continuato a occuparsi di yakuza ヤクザ, scrivendone sulla stampa americana e registrando negli ultimi tempi il diverso atteggiamento delle autorità verso la criminalità organizzata."Qualcosa sta cambiando. La yakuza è sempre stata considerata un male necessario, il prezzo da pagare per tenere pulite le strade. Fino a poco tempo, fa tra la polizia e la criminalità organizzata spesso c’è stato un rapporto di collaborazione. Per questo in Giappone non esiste una legge contro il crimine organizzato, nessun governo liberaldemocratico ha mai avuto interesse a farla. Addirittura in passato ci sono stati casi di membri della yakuza entrati in politica: Hamada Koichi, per esempio, prima di diventare senatore era stato nella Inagawakai, il terzo gruppo del paese per numero di affiliati. O il nonno dell’ex premier Junichiro Koizumi, un ex gangster noto come il “ministro tatuato”. Nemmeno il Partito democratico, al potere dal 2008, ha inserito la lotta contro la criminalità organizzata nel suo programma politico. E non e un caso. Nel 2007 i democratici hanno fatto un patto con la Yamaguchi-gumi: la più grande famiglia di yakuza avrebbe garantito il suo sostegno, e in cambio i democratici avrebbero lasciato qualsiasi progetto di legge contro il crimine organizzato in soffitta. E cosi è stato". In effetti, finora a Tokyo 東京 , dove si è appena insediato il sesto primo ministro in cinque anni, non si é parlato di legge anti-yakuza. "Con una legge ad hoc puoi arrestare i capi di un organizzazione per i crimini commessi dai loro sottoposti. In Giappone, invece, se un “soldato semplice” commette un omicidio, la catena di responsabilità si ferma li. Viene processato, il gruppo a cui appartiene gli fornisce un avvocato, finisce in prigione ma sa che nel frattempo la “famiglia” provvederà a mantenere moglie e figli e che quando uscirà verrà ricompensato a dovere. Non essendoci programmi di protezione dei testimoni o una legge sui pentiti mancano gli incentivi a collaborate con la giustizia".
Qualcosa però ultimamente è cambiato. "Dato che la yakuza non è considerata fuori legge, la polizia cerca almeno di renderle la vita difficile. L’attuale capo dell’Agenzia nazionale di polizia dal 2010 ha fatto adottare alle singole prefetture (regioni) delle clausole da inserire in ogni genere di contratto - dall’apertura di un conto in banca a un contratto d’affitto, ai contratti nell’edilizia - che bandiscono ogni legame con il crimine organizzato. Se un costruttore si rivolge a ditte gestite dalla yakuza - molti se ne servono per sgomberare, con minacce e altri mezzi poco ortodossi, gli edifici sul terreni a cui sono interessati - lui non può essere arrestato, perché pagare la yakuza per fare un lavoro non è illegale, ma il suo nome viene reso pubblico, il che implica un azzeramento degli affari e una condanna alla bancarotta. E’ successo alla Suruga Corporation, una grossa azienda di costruzioni e vendita di immobili. Nel 2008 aveva pagato 50 milioni di dollari a una ditta di facciata della Goto-gumi, proprio per un servizio di sgombero. Hanno arrestato qualche uomo del gruppo ma non il proprietario dell’azienda, che però é fallita dopo che la vicenda é venuta a galla. Un altro esempio: se chi apre un conto in banca non dichiara subito di avere legami con la yakuza quando firma il contratto, in seguito può essere perseguito per frode. Queste misure cercano di supplire alla mancanza di una legge anticrimine e credo che qualche effetto avranno. Anche perché le aziende avranno sempre meno denaro a disposizione, e ricorrere ai servizi forniti dalla yakuza sarà sempre meno conveniente". Come mai proprio adesso questo giro di vite? "Perché si è rotto un equilibrio. Finora il tacito accordo tra autorità e criminali prevedeva che la yakuza rimanesse nell’ombra. Nell’estate 2010, invece, quando è scoppiato uno scandalo che ha bloccato il campionato di sumo, è successa una cosa inedita: cinquanta membri della Kodokai, un’affiliata della Yamaguchi-gumi particolarmente indomita, hanno sfilato davanti alle telecamere. Una provocazione inaccettabile che si aggiungeva a una serie di altri episodi in cui la Kodokai si era mostrata pronta a combattere. Nel 2007 la polizia aveva fatto irruzione in una sede della Kodokai e i poliziotti avevano trovato le foto dei loro familiari appese alle pareti. Cose di questo genere. Il 30 settembre il Capo dell’Agenzia nazionale di polizia ha radunato tutti i comandanti del paese e ha dato un ordine preciso: distruggere la Kodokai, il passo necessario per attaccare la Yamaguchi-gumi. Lo scandalo del sumo non è scoppiato a caso. Tutti sapevano dei legami tra il sumo e la yakuza, del fatto che i lottatori erano nel giro di scommesse clandestine sulle partite di baseball, ma solo quando la Kodokai ha tirato la corda, la stampa ha scoperto l’acqua calda e ne ha parlato scatenando il putiferio".
L’ultimo scandalo legato alla yakuza ヤクザ è quello che ha travolto Shinsuke Yamada, “il Jay Leno della tv giapponese”, come lo definisce Adelstein, che lo scorso agosto si è dovuto ritirare dalle scene dopo che i suoi rapporti con il crimine organizzato sono diventati di dominio pubblico. Una vicenda che ha messo in evidenza un altro aspetto della ramificazione della yakuza ヤクザ, i cui tentacoli sembrano arrivare ovunque: la sua presenza nell’industria dello spettacolo. Di questa e altre storie Jake Adelstein continua a scrivere su japansubculture.com, una fonte di notizie e aggiornamenti dall’underworld nipponico.
Quanto alla storia che gli ha cambiato la vita, quella di Goto e del suo fegato nuovo, Adelstein alla fine l’ha scritta nel 2008 sul Washington Post. Nel frattempo Goto si è ritirato ed è diventato un monaco buddista. ll che non gli ha impedito di inserire nella sua autobiografia, uscita nella primavera 2010, una minaccia di morte chiaramente diretta a lui. Toshiro Igari, l’avvocato a cui Adelstein ha chiesto aiuto per fare causa all’editore, molto attivo contro il crimine organizzato, è stato trovato morto in una stanza d’albergo a Manila. Per la polizia si è trattato di suicidio, e il caso è stato chiuso.
E’ stato questo l'ultimo episodio di una guerra non ancora finita.

lunedì 12 ottobre 2015

October 12, 1492: the end of the freedom of the natives


"Hanhepi iyuho mi ihanbla ohinni yelo / O sunkmanitutankapi hena, sunkawakanpi watogha hena,  oblaye t'ankapi oihankesni hena / T'at'epi kin asni kiyasni he akatanhanpi iwankal / Oblaye t'anka kin osicesni mitakuyepi òn / Makoce kin wakan, WakanTanka kin òn / Miwicala ohinni - Hanhepi iyuha
kici - Anpetu iyuha kici yelo / Mi yececa hehaka kin yelo, na / ni yececa sunkmanitutankapi / kin ka mikaga wowasaka isom / Uncipi tuweni nitaku keyas ta k'u / Unwakupi e'cela e wiconi wanji unmakainapi ta yelo / Anpetu waste e wan olowan le talowan winyan ta yelo / Unwanagi pi lel e nita it'okab o'ta ye / Untapi it'okab o'ta / Na e kte ena òn hanska ohakap / ni itansni a'u nita ni ihanke yelo"

"I still dream every night / Of them wolves, them mustangs, those endless prairies / The restless winds over mountaintops / The unspoilt frontier of my kith n`kin / The hallowed land of the Great Spirit / I still believe / In every night  / In every day / I am like the caribou / And you like the wolves that make me stronger / We never owed you anything / Our only debt is one life for our Mother / It was a good day to chant this song / For Her / Our spirit was here long before you / Long before us / And long will it be after your pride brings you to your end"


Para muchos fue el 12. Para unos pocos fue el 11. Para otros, aún más revisionistas, fue el 13. Pero la fecha sólo indica una referencia aproximada del inicio o consumación de los hechos históricos. Es definida por un calendario. Gregoriano, juliano, maya, azteca, judío. Un dato poco determinante de los procesos de la historia. Una historia que es conflictiva. Llena de incidentes, contradicciones, opresiones, sangre, muerte y pérdidas. Pérdidas culturales. Pérdidas humanas. Pérdidas sociales, políticas y económicas. Pérdidas.
Con la llegada de la Niña, la Pinta y la Santa María a las Antillas, se iniciará el mayor etnocidio de la historia de la Humanidad. Llegaban los europeos. Hombres blancos, vestidos con finas telas, que hablaban un idioma muy extraño y estaban iluminados por un solo Dios. Eran monoteístas. Una cuestión fundamental de entender para comprender las causas de la matanza indígena. Indios porque pensaron que habían llegado a la India. Nosotros heredamos el vocablo. Lo reproducimos. Casi, inconscientemente. Pero estos indios no eran monoteístas. Adoraban al sol. A la tierra. Tenían sus dioses. Creencias propias que fueron deslegitimadas. Desvalorizadas. Manipuladas, para así efectuar una evangelización más eficaz. El originario se convencía de su nueva creencia. Si no lo lograba, era asesinado. El método de la coerción, violencia y muerte. 
Cristóbal Colón, un navegante genovés, simplemente responsable. Responsable de haber zarpado hacia la India. Responsable de haber creído llegar a tierras indias. Responsable de haber hallado al “Nuevo Mundo”. Nuevo Mundo para ellos. Un territorio nunca antes visto por el ojo europeo. Libre de toda explotación y sumisiones que se establecieron en la posteridad. Con comunidades autogobernadas a miles de kilómetros de los feudos, vasallos y Señores. Un suelo con una incalculable belleza paisajística. Un continente donde abundaban las esmeraldas, los recursos naturales y el tan preciado oro. Una tentación para el hombre blanco. Un valioso brillante tan anhelado por éste, que lo llevó a provocar extensos ríos de sangre para conseguirlo. Oro que formó parte de la primitiva acumulación capitalista necesaria para la Revolución Industrial.
Los indios eran pacifistas. De lo contrario, no hubiesen vuelto los europeos. Los que llegaron, hubieran muerto a manos de estos salvajes. Pero no fue así. Tuvieron oportunidad de sobrevivir. De convertirse en salvajes. Ahora ellos. Verdaderos bárbaros, para luego asesinar al noventa por ciento de la población autóctona. Sólo cincuenta años tardaron. De 110 millones a 11 millones los redujeron. En nombre de Dios, la iglesia y el catolicismo. El Vaticano, el mayor beneficiado de la colonización. Las misiones, evangelización y los Tomás de Torquemada que la formalizaron. Se adoctrinó al resto. Pocos indios que aprendieron a hablar castellano y a alabar al Dios de Occidente. Pocos que sobrevivieron. Oprimidos, hasta morir. Negados de su cultura. Violados por una cultura superior, cuya superioridad yacía en las reglas que imponían. Normas, nuevas creencias y civilización. Uso al extremo del racismo. Una noción corrompida por el interés mercantil. Porque si de razas hablamos, la verdad es que sólo existe una. La raza humana. La única que representa al Ser Humano. En el Viejo continente, en la India a la que no se llegó y aquí. Hace siglos, hoy y siempre.
Parecían dioses los foráneos. Llegaban en grandes construcciones a base madera, nunca antes vistas por estos pagos. Trajeron técnicas, alimentos, creencias y enfermedades, como la viruela. Cosas que ya habían. Pero distintas. Por eso comenzó la conquista. Por el choque de culturas. Lógicamente diferenciadas, complejas y a las que se defendieron con la vida. Porque se resistió a la usurpación de tierras. Se resistió con todas las fuerzas a la negación de la identidad como pueblos con existencia propia. No americana. Originaria. Pero no pudieron impedir la destrucción, casi por completo, de sus raíces, sus saberes, su descendencia, su intuición. Perdieron hombres, mujeres, niños, viejos y sabios, por cantidades superlativas. La medicina natural, la relación y el entendimiento con la naturaleza, fueron avasallados. No hubo opción de convivencia ni de mutuo acuerdo. Se procedió de una manera irracional. Inhumana. Que no tendrá olvido ni perdón.
Velázquez por la hoy isla de Cuba. Cortés por México, donde se encontraban los Aztecas. Pizarro por Perú, donde habitaban los Incas. Grandes conquistadores, etnocidas y ejecutantes de las políticas de la Corona española. Políticas que llevaron a destruir civilizaciones enteras. Civilizaciones que ya existían en nuestra tierra, desde hacía siglos. Habían desarrollado sistemas de comercio, escritura, ciencias, arte, agricultura. Practicaban su cultura, su cotidianeidad, sus propias desigualdades sociales y económicas. De ellas, las grandes civilizaciones precolombinas, hoy sólo nos quedan ruinas, pintadas rupestres, y las invaluables leyendas que se transmitieron oralmente entre los integrantes del pueblo oriundo de esta tierra.
La resistencia indígena a la conquista permitió la conservación de algunas culturas originarias. No todo se perdió en el etnocidio del siglo XVI. Durante estos cinco siglos, los pueblos originarios convivieron con la sociedad europeizada de Latinoamérica. Algunos interrelacionados, otros con poca comunicación e intercambio cultural con ella. En la actualidad luchan por mantener y enseñar a sus hijos esa esencia autóctona que aun poseen, y que se encuentra en peligro de extinción. Ellos, que son más dueños de la tierra que la sociedad que vive en ella. Los pueblos originarios que alzan su voz ante las injusticias, el etnocentrismo, el robo de sus posesiones y los genocidios que todavía soportan en sus espaldas.Mapuches en la Patagonia y sur de Chile. Qopiwini en Argentina. Originarios de Bolivia, Perú y los comunitarios autogobernados de los montes mexicanos. Pueblos indígenas del Amazonas, Colombia y Venezuela. Pueblos de Centroamérica. Discriminados por cada uno de los Estados, reprimidos por cada uno de sus brazos armados. Por defender a la madre tierra, a la Pachachamama. Por intentar determinar su porvenir. Por exigir lo que les pertenecen. Hoy los pueblos originarios ocupan el último escalón social de las prioridades del Estado y la sociedad capitalistas. Es nuestra mayor responsabilidad promover el cambio, que no vendrá desde arriba, sino deberá ser construido desde abajo, y en sintonía con la devolución de la libertad a nuestros pueblos originarios. Una libertad que hasta el 11 de octubre de 1492 supieron poseer.

sabato 13 giugno 2015

Pandillas

L'abbandono delle periferie, la non integrazione dovuta anche ai tagli terribili abbattutisi sulla scuola pubblica, l'assenza di spazi sociali e culturali che, anzi, finiscono nel mirino del Comune, il totale non-investimento in queste realtà... dove poi diventa facile abbandonarsi alla delinquenza, e dove giovani vite vengono segnate per sempre... come in quelle canzoni di Tupac e di Eminem... forse la 8 Mile e il Bronx non sono poi così distanti...

Gruppi che si muovono silenziosi e rumorosi al contempo, nelle periferie, lontani dai centri più “in” di Milano. Sono in banda, sono tanti, sono giovani e giovanissimi. I giornali ne parlano poco, ancor meno le tv. Eppure chi abita dove loro si ritrovano, dove loro agiscono, sanno bene che non sono fantasmi né leggende metropolitane, ma sono una costante assai presente. Lorenteggio, Giambellino, Crescensago, Stazione Lambrate, Stazione Centrale: sono solo alcuni dei luoghi da loro più frequentati. I nomi delle loro bande evocano film, evocano una realtà che è ben presente in centro e sud america ed anche negli States. Ma oggi sono anche qui, in Italia, specialmente a Milano, Genova e Roma, a fare banda, a scatenare guerriglia quando ne sentono il bisogno, quando l’onore viene offuscato e deriso. Perché così si comporta una banda, perché così fanno in ogni parte del mondo ove sono presenti, perché questo è il codice da seguire. I nomi che rieccheggiano nelle periferie metropolitane di Milano, nella notte, sono famosi: Latin Kings, Comando, Chicago, Maras 18, Mara Salvatrucha 13, Soldao Latinos, Vatos Locos, Neta e i nuovi entrati Trinitaria e New York. Le origini affondano radici in Ecuador, in El Salvador, in Perù, in Uruguay, a Portorico, nelle comunità centro e sud americane presenti negli USA. Oggi sono qui anche da noi e di solito non fanno molto notizia, sia perché operano nelle periferie più ghettizzate sia perché gli scontri, i pestaggi, le botte, avvengono quasi sempre fra di loro, senza coinvolgere gente comune. Certo, poi ci sono gli “errori”, come qualche mese fa, quando il gruppo MS 13 scambiò un normalissimo ragazzo sudamericano per un appartenente alla Maras 18, e lo pestarono ferocemente fino a causargli la perdita di un occhio…
Ma chi sono i componenti di queste pandillas? Molti sono i sudamericani, la maggioranza nati in Italia, seguiti da italiani e africani. Praticano forme di racket, atti vandalici, pestaggi, furti e rapine. Hanno una chiara gerarchia al loro interno, hanno un’identità comune, sfoggiano loro codici, loro colori nel vestiario, loro tatuaggi, marcano un territorio. Girando sulle metro di Milano non si possono non vedere. Musica rap, casse di birra su casse di birra, bombolette spry, vestiti hip-hop, bandane con i colori d’appartenenza. Si formano nei quartieri dormitorio, nelle periferie più buie, a scuola, provengono quasi tutti da situazioni di degrado, da famiglie problematiche, da quartieri difficili, da solitudini profonde. Emergono così facendo gruppo, facendo spalla contro spalla, si sentono realizzati, si sentono riconosciuti, si sentono forti all’interno della banda, non di rado sentono nella pandillas quella famiglia che non hanno mai avuto o che hanno avuto sfasciata. Ma c'è di più: questi giovani, sulla scia del linguaggio universale che propone la loro musica, il reaggeton, diffondono e credono in valori come giustizia, fratellanza, pace e amicizia. Combattono il razzismo che essi stessi subiscono.
Gruppi di certo complessi, oscillanti fra legalità e illegalità, giustizia e criminalità.
Andate, andate a fare un giro a Milano, in quella Milano che non è boutique firmate, che non è arte, che non è turismo. Venite tra i palazzoni di cemento gli uni vicino agli altri, venite all’ultima fermata della metro e del bus, venite nei quartieri duri lasciati al loro degrado. Lì troverete tutte queste pandillas, quiete nel loro caos giornaliero. E sperate solo che un giorno non decidano di dichiarare guerriglia verso il centro, verso il vostro quartire per bene, perché la battaglia sarebbe cruenta.

domenica 18 gennaio 2015

The Children of Leningradsky



Since the fall of the Iron Curtain an estimated four million children have found themselves living on the streets in the former countries of the Soviet Union. In the streets of Moscow alone there are over 30,000 surviving in this manner at the present time. The makers of the documentary film concentrated on a community of homeless children living hand to mouth in the Moscow train station Leningradsky. Eight-year-old Sasha, eleven-year-old Kristina, thirteen-year-old Misha and ten-year-old Andrej all dream of living in a communal home. They spend winter nights trying to stay warm by huddling together on hot water pipes and most of their days are spent begging. Andrej has found himself here because of disagreements with his family. Kristina was driven into this way of life by the hatred of her stepmother and twelve-year-old Roma by the regular beatings he received from his constantly drunk father...
With Communism were not street children, nobody was living in the street.