martedì 26 maggio 2009

Pandillas

Gruppi che si muovono silenziosi e rumorosi al contempo, nelle periferie, lontani dai centri più “in” di Milano. Sono in banda, sono tanti, sono giovani e giovanissimi. I giornali ne parlano poco, ancor meno le tv. Eppure chi abita dove loro si ritrovano, dove loro agiscono, sanno bene che non sono fantasmi né leggende metropolitane, ma sono una costante assai presente. Lorenteggio, Giambellino, Crescensago, Stazione Lambrate, Stazione Centrale: sono solo alcuni dei luoghi da loro più frequentati. I nomi delle loro bande evocano film, evocano una realtà che è ben presente in centro e sud america ed anche negli States. Ma oggi sono anche qui, in Italia, specialmente a Milano, Genova e Roma, a fare banda, a scatenare guerriglia quando ne sentono il bisogno, quando l’onore viene offuscato e deriso. Perché così si comporta una banda, perché così fanno in ogni parte del mondo ove sono presenti, perché questo è il codice da seguire. I nomi che rieccheggiano nelle periferie metropolitane di Milano, nella notte, sono famosi: Latin Kings, Comando, Chicago, Maras 18, Mara Salvatrucha 13, Soldao Latinos, Vatos Locos, Neta e i nuovi entrati Trinitaria e New York. Le origini affondano radici in Ecuador, in El Salvador, in Perù, in Uruguay, a Portorico, nelle comunità centro e sud americane presenti negli USA. Oggi sono qui anche da noi e di solito non fanno molto notizia, sia perché operano nelle periferie più ghettizzate sia perché gli scontri, i pestaggi, le botte, avvengono quasi sempre fra di loro, senza coinvolgere gente comune. Certo, poi ci sono gli “errori”, come qualche mese fa, quando il gruppo MS 13 scambiò un normalissimo ragazzo sud americano per un appartenente alla Maras 18, e lo pestarono ferocemente fino a causargli la perdita di un occhio…
Ma chi sono i componenti di queste pandillas? Molti sono i sud americani, la maggioranza nati in Italia, seguiti da italiani e africani. Praticano forme di racket, atti vandalici, pestaggi, furti e rapine. Hanno una chiara gerarchia al loro interno, hanno un’identità comune, sfoggiano loro codici, loro colori nel vestiario, loro tatuaggi, marcano un territorio. Girando sulle metro di Milano non si possono non vedere. Musica rap, casse di birra su casse di birra, bombolette spry, vestiti hip-hop, bandane con i colori d’appartenenza. Si formano nei quartieri dormitorio, nelle periferie più buie, a scuola, provengono quasi tutti da situazioni di degrado, da famiglie problematiche, da quartieri difficili, da solitudini profonde. Emergono così facendo gruppo, facendo spalla contro spalla, si sentono realizzati, si sentono riconosciuti, si sentono forti all’interno della banda, non di rado sentono nella pandillas quella famiglia che non hanno mai avuto o che hanno avuto sfasciata. Ma c'è di più: questi giovani, sulla scia del linguaggio universale che propone la loro musica, il reaggeton, diffondono e credono in valori come giustizia, fratellanza, pace e amicizia. Combattono il razzismo che essi stessi subiscono.
Gruppi di certo complessi, oscillanti fra legalità e illegalità, giustizia e criminalità.
Andate, andate a fare un giro a Milano, in quella Milano che non è boutique firmate, che non è arte, che non è turismo. Venite tra i palazzoni di cemento gli uni vicino agli altri, venite all’ultima fermata della metro e del bus, venite nei quartieri duri lasciati al loro degrado. Lì troverete tutte queste pandillas, quiete nel loro caos giornaliero. E sperate solo che un giorno non decidano di dichiarare guerriglia verso il centro, verso il vostro quartire per bene, perché la battaglia sarebbe cruenta.

venerdì 8 maggio 2009

Cos'è accaduto alla Persia?

Teheran, la capitale dell’Iran, è una vivace metropoli soffocata dall’inquinamento, situata alle pendici dei Monti Elburz. Molti dei suoi edifici sono costruiti in mattoni chiari e circondati da cancellate di metallo. Qui sopravvivono ancora alcuni splendidi parchi di eredità persiana e dietro le mura dei palazzi fioriscono giardini privati con alberi da frutto e fontane, vasche per pesci e voliere. La lunga storia dell’Iran è costellata di guerre, invasioni e martiri. Ogni tragedia può essere ricondotta ad un’unica ragione: la posizione geografica. L’Iran è la terra d’incontro tra Occidente e Oriente, dove per 26 secoli i due emisferi si sono fusi attraverso commerci, scambi e scontri culturali. Nel frattempo la posizione strategica e la ricchezza del paese attirarono anche una lunga serie di invasori: l’Impero Persiano è stato fondato, distrutto e ricreato più volte, prima di scomparire definitivamente. Tra i vari conquistatori vi furono i Turchi, Gengis Khan e i Mongoli, ma soprattutto le tribù arabe che, infervorate dalla religione islamica, nel VII secolo sconfissero definitivamente l’Impero inaugurando un’età dell’oro musulmana. Da allora gli iraniani si sono sempre sforzati di distinguersi dal resto del mondo arabo e musulmano. Sulla mentalità degli iraniani sembra incombere un importante retaggio storico: i diritti dell’uomo e il concetto di libertà potrebbero essere nati non con gli antichi Greci ma in Iran, con Ciro il Grande. Egli fu l’artefice di quello che è stato definito il primo Impero tollerante dal punto di vista culturale-religioso, che arrivò a comprendere oltre 23 popoli diversi. Al suo apogeo la Persia fu considerata la prima superpotenza del mondo, comprendeva gli attuali stati di Iraq, Pakistan, Afghanistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turchia, Giordania, Cipro, Siria, Libano, Israele, Egitto e il Caucaso. Grande è oggi la voglia di tornare ad essere tali.
Poi arrivò il 1953, una data cruciale. In quell’anno venne destituito il primo ministro iraniano (Mohammad Mossadeq) da parte dell’Inghilterra e della CIA. Il primo ministro aveva posto fine alla presenza britannica in Iran con la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Inghilterra e CIA allora architettarono un colpo di stato destituendo il primo ministro e imponendo lo scià Mohammad Reza Pahlavi, con poteri assoluti. Quest’ultimo se da una parte magnificava Persepoli e Ciro il Grande, dall’altra portò costumi e interessi economici occidentali; e rese molto attiva la polizia segreta. Questa rapida occidentalizzazione e repressione cominciò a suscitare vaste polemiche fra gli iraniani, fino a giungere, alla fine degli anni ’70, alla rivoluzione di Khāmeneī. Il riemergere della religione fu sentito come un ritorno alla purezza. Certo, gli iraniani non potevano aspettarsi che l’Islam sarebbe stato imposto con tanto rigore (esplicito un precetto del Corano che dice “la religione non ammette costrizione”) , né si aspettavano che il clero assumesse il controllo dell’economia, dell’amministrazione pubblica, dei tribunali, delle attività quotidiane e che avrebbe introdotto punizioni di stampo medievale quale l’impiccagione, la lapidazione, il taglio degli arti. E, non da ultimo, la cancellazione di ciò che fu perisano per far risaltare ciò che è islamico. Oggi non sono pochi gli iraniani che sentono quanto sia orribile essere intrappolati nel proprio paese e che, ironia della sorte, riscoprono con gioia le origini persiane, i loro legami con ciò che fu la grande Persia.
Ma, nel frattempo, la repressione in questa nazione continua, in nome di una religione manipolata per piegarla a fini politici e di potere. L’ondata delle esecuzioni non si ferma e con essa quella delle restrizioni della libertà e dei diritti.