venerdì 6 giugno 2008

Propagande incrociate: due o tre cose sul Tibet che nessuno osa dire

Quando gli elefanti combattono, dice un proverbio africano, a rimetterci è l'erba.
Nel caso poi in cui gli elefanti sono pesi massimi come Cina e Stati Uniti, entrambi molto abili nell'utilizzare il circo mediatico, il destino dell'erba (i tibetani) sembra segnato.
A noi spettatori dell'ennesima tragedia, ormai consapevoli che le cose peggiori sono quelle che nessuno racconta, non resta che scegliere a caso fra una valanga di informazioni impossibili da verificare. Pochi, fra i giornalisti e i simpatizzanti dei monaci arancioni, amano ricordare il ruolo recitato dalla Cia in questa regione da cinquant'anni, un ruolo importante per la sopravvivenza della leadership tibetana in esilio ma decisamente controproducente per quelli che sono restati nel territorio occupato dai cinesi.
La Cia ha cominciato a condurre operazioni su vasta scala in Tibet fin dal 1956, cosa che ha condotto alla disastrosa sollevazione del '59, con decine di migliaia di morti e la fuga del Dalai Lama e dei suoi seguaci in India e in Nepal. Quel primo insuccesso non portò il Dipartimento di Stato a più miti consigli, al contrario: venne allestito un campo di addestramento per la guerriglia tibetana a Leadville, in Colorado, che continuerà a funzionare fino al 1966. La Tibetan Task Force della Cia, invece, continuerà a operare fino al 1974 - presumibilmente la fine di questo programma fu una delle promesse che Nixon fece nel suo storico incontro con la leadership cinese a Pechino. Secondo un reportage dedicato a questa storia dal Washington Post nel 1999, gli insuccessi della Cia furono dovuti ad alcune circostanze decisamente sottostimate dagli analisti, come ad esempio il risentimento della popolazione verso il passato regime. I tibetani avevano paura del ritorno degli aristocratici fuggiti con il Dalai Lama perchè, soprattutto i contadini, temevano di dover restituire ai nobili la terra che era stata loro assegnata con la riforma agraria. Insomma, nemmeno i più ferventi buddisti volevano tornare a fare i servi della gleba per i potenti latifondisti che erano la spina dorsale della teocrazia di Lhasa.
Con l'apertura al capitalismo voluta da Deng Xiaoping, però, i tibetani finiscono col perdere i pochi benefici conquistati sotto i cinesi e la Cia, approfittando dello scontento, ci riprova. Il suo contributo alla rivolta del 1987 non è documentato come i precedenti ma è abbastanza certo, così com'è certo che andò a finire male: la repressione cinese fu durissima e continuò fino al 1993, con il risultato che le timide aperture verso una maggiore autonomia del Tibet vennero soffocate nel sangue. La Cia comunque continuò attivamente a lavorare secondo la strategia utilizzata in Afghanistan e, più tardi, in Kosovo: tanta propaganda e tante armi leggere, contrabbandate nel paese da ogni luogo del mondo.
Oggi, con la vetrina delle Olimpiadi già aperta, l'occasione di dare una spallata al gigante, già in precario equilibrio per le rivendicazioni della minoranza musulmana, è troppo ghiotta per non approfittarne. Se gli occidentali tacciono queste informazioni importanti, anche i cinesi non scherzano. Nessuno ha detto, per esempio, che Pechino ha inviato in zona l'esercito - la 149° divisione di fanteria meccanizzata - e ha allestito un Centro di comando a Lhasa affidato a Zhang Qingli, segretario del Partito tibetano vicinissimo al presidente Hu Jintao. Inutile dire che, se si fosse trattato di semplici disordini provocati da elementi criminali, come sostiene Pechino, sarebbe stata mandata la polizia, non certo reggimenti dotati dei più moderni mezzi corazzati. Con questa decisione il governo centrale dimostra di temere la sollevazione su larga scala, un'ingerenza diretta di Washington oppure le due cose insieme. Molto probabilmente Pechino è consapevole che stavolta lo scontento è ben più ampio proprio per via delle riforme turbo-capitaliste con cui si è cercato di modernizzare il paese. E qui veniamo all'ultimo punto di cui nessuno scrive: la sollevazione tibetana, che con il suo carico di violenza ha messo in imbarazzo perfino il Dalai Lama, è causata soprattutto dall'inasprimento delle condizioni di vita degli abitanti autoctoni, prevalentemente contadini, cui è stato riservato lo stesso trattamento che provoca ogni anno decine di migliaia di rivolte nell'intero paese. Gli effetti deleteri delle riforme che hanno cancellato importanti conquiste - come ad esempio il sistema sanitario generalizzato - mentre la marcia devastante delle fabbriche a basso costo inquina i fiumi e sottrae terra coltivabile agli agricoltori, si somma in Tibet con il risentimento causato da una colonizzazione che mira a cancellare le specificità culturali e a mettere il guinzaglio alla religione.
A tutto ciò si aggiunge l'effetto Kosovo: la disinvoltura con cui Washington e alcuni paesi europei (fra cui l'Italia) hanno violato l'integrità territoriale di una nazione sovrana, induce Pechino ad avere la mano particolarmente pesante.


E, come al solito, a rimetterci è l'erba.



Articolo di Sabina Morandi (Brianza Popolare)

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao!
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ciao ciao