venerdì 13 febbraio 2009

Vi racconto di Claude... - 1 parte

Sono a cena a casa di amici. La serata è piacevole, sui fornelli numerose pentole annunciano pietanze speciali, la musica si diffonde in tono non troppo alto dallo stereo, l’ambiente è confortevole e rilassante. La tavola è apparecchiata per cinque. Mi annunciano che ci sarà un ospite che non conosco, un loro amico, congolese, un ragazzo molto simpatico. Si chiama Claude. Quando “l’ospite” entra dalla porta ci presentiamo: è giovane, gli occhi grandi, i capelli corti e neri, un sorriso bianchissimo e timido, la pelle scura.
Manca ancora un po’ prima che il tutto sia pronto così, scoperto che Claude parla francese, iniziamo a discorrere: io da una parte rispolvero una lingua che se no rischio di non usare mai e dell’altra lui è ben felice di parlare la sua lingua madre. Ma non discutiamo delle solite cose. In quella cucina tutti sanno, tranne me. M’incuriosisco e ho voglia di capire. Così, con una naturalezza infinita, Claude mi parla di sé.
Claude è nato nella Repubblica Democratica del Congo, in una città normale, da una famiglia normale e ha sempre condotto una vita normale: i genitori erano abbastanza benestanti e gestivano un negozio, lui e i fratelli andavano a scuola dove veniva loro insegnato il francese e l’inglese (in famiglia si parlava una sorta di dialetto, mi specifica). Aveva sempre vissuto in quella città, moderna, come una qualunque città occidentale. La vita scorreva normalissima come scorre qui da noi.
Finchè le crepe già presenti da qualche anno in quella nazione, diventarono vere e proprie rotture: arrivò, arrivò la guerra civile.
I genitori di Claude capiscono subito, capiscono che la situazione diverrà infuocata. Guardano i loro figli: Claude, il più giovane, deve avere almeno una possibilità. Se resta tre i pericoli maggiori: essere forzatamente arruolato nell’esercito “regolare” o essere forzatamente arruolato nelle file dei ribelli. O morire.
I genitori si consultano, fanno la loro scelta. Raccolgono i risparmi, glieli danno. Lo portano da una persona di fiducia, da una sorta di “tassista” che invece dell’auto ha la bicicletta.
“Lui mi doveva portare fuori dal Congo” dice con voce pacata Claude, seduto davanti a me, con gli occhi che sembrano vedere immagini lontane. Il padre glielo affida, lo paga, lo rimette nelle sue mani. Claude comprende fin troppo bene, è intelligente, è sveglio, comprende quello che sta accadendo. Così, in pochi giorni, Claude deve dire addio: ai genitori, ai fratelli, ai parenti, agli amici, alla sua casa, ad una vita normale di un qualunque ragazzino di 14 anni. Istintivamente mi domando io come avrei reagito. “Raggiungere la Libia o la Tunisia” continua calmo Claude “Mio padre me lo ripetè più volte, dovevo arrivare in Europa e chiedere asilo politico, asilo politico”. Ripete la parola come se si immedesimasse in suo padre. A soli 14 anni Claude dice addio alla sua solita vita.
Mentre mi parla e il mio stomaco si fa granito, lui sembra sereno, ma gli occhi racchiudono uno stato che descrivere è difficile: accettazione, sofferenza, speranza, rabbia…
Claude saluta, saluta sapendo che chi lì rimane avrà poche probabilità di sopravvivere. Saluta tanto, prima di voltare le spalle, salire sulla bici e fissare la strada che lo porterà lontano.
Il viaggio nel Congo è unico: mi parla di foreste fittissime in cui muoversi per evitare la strade battute dai miliziani, di notti all’aperto sotto volte stellate infinite e un buio pesto. Poi, ogni tanto, lucine di fuochi di popoli tribali che li accoglievano senza problemi: “L’ospitalità per loro è sacra” mi dice ridacchiando. Scopre un Congo che neanche lui, congolese, conosceva.
Poi, Claude arriva al confine…
La mia amica ci annuncia che la cena è pronta. Tutti ci prepariamo alla gustosa cena.
“Continuiamo dopo?” chiedo a Claude con gran curiosità.
Mi fa di sì con la testa, abbozzando un sorriso da bambino. L’osservo, l’osservo in in quei suoi modi di fare discreti e timidi, e cerco di andare oltre le sue parole, cerco d’immaginare cosa deve aver provato. Perché non si fa compatire Claude, durante il racconto non parla di sofferenza, di tristezza…è riservato, è imbarazzato. Ma non è un blocco di ghiaccio, anzi, tutt’altro.
Mi chiedo incessantemente cosa si prova ad avere 14 anni e lasciare tutto per il nulla.
Penso a quelli come lui. Penso a chi si fa in quattro per aiutarli. Penso a chi li offende e li disprezza. Ma smetto di pensare, cerco di godermi la serata e attendo con ansia il continuo della sua storia, della vita di Claude.

domenica 1 febbraio 2009

L'infanzia negata

Questa settimana su Italia 1, al mattino presto, inizierà un cartone animato dal titolo un po’ poetico “Spicchi di cielo tra baffi di fumo” (Romio no aoi sora). L’anime fu prodotto nel 1995 dalla Nippon Animation.
Perché dovrei parlarvi di questo cartone? Perché spendere un post a dedicargli spazio?
Perché questo non è un cartone animato. Questo non è un semplice anime, non è né banale, né divertente, né fantasioso, né irreale. Questo è serio. Questo è pesante se sapete guardare oltre. Questo tratta una tematica drammatica e intrisa di sofferenza.
Il cartone fu tratto da un romanzo della svizzera Lisa Tetzner, “I Fratelli Neri” (Die Schwarzen Brüder), scritto nel 1941. Il romanzo fu in realtà scritto dal marito Kurt ma in quanto rifugiato politico in Svizzera gli era imposto il divieto di pubblicazione. Il libro racconta la vera storia dei ragazzi ticinesi che, ancora a metà del XIX secolo, venivano venduti/affittati a loschi personaggi che li portavano a Milano per lavorare come spazzacamini. Nello specifico il romanzo è ambientato nel 1839 e viene narrato il destino di Giorgio, un quattordicenne originario della Valle Verzasca venduto dal padre a un uomo senza scrupoli che lo porta a Milano a lavorare come spazzacamino. Il ragazzo condivide il viaggio verso il suo triste destino con altri bambini tra cui Alfredo, che diventa suo amico. A Milano, Giorgio e Alfredo vengono rivenduti a due differenti mastri spazzacamini. Sfruttati e costretti a subire ogni sorta di soprusi, i due giovani si riscattano grazie all'incontro e alla solidarietà con altri spazzacamini, riuniti attorno alla società segreta de "I Fratelli Neri". Nel 2007 fu composto anche un musical.
L’anime si rifà a grandi linee a questa trama. Attuale come non mai la tematica dei vari scontri tra il gruppo de “I Fratelli Neri”, composto dagli spazzacamini immigrati, e “I Lupi”, banda di altrettanti bambini-ragazzini milanesi poveri e semi-delinquenti.
La realtà degli spazzicamini era una realtà dura, molte volte letale. Spinte dalle ristrettezze, molte famiglie vendevano per pochi soldi i propri figli a inquietanti personaggi che li portavano nelle grandi città del nord Italia (ma anche a Parigi e Rotterdam) e li costringevano a lavorare come spazzacamini. Venduti per mesi e a volte anche per anni, questi ragazzini tra i 6 e i 16 anni vivevano in condizioni di vera schiavitù. Senza protezione, minacciati, sfruttati e anche malnutriti perché i loro padroni temevano che se si irrobustivano non sarebbero più riusciti ad entrare nel camino; spesso questi bambini finivano col perdere la vita: tubercolosi, asma, bronchiti croniche, polmonite, affaticamento cardiaco, silicosi. Un'odissea infantile, che colpì in generale tutto l'arco alpino ma raggiunse dimensioni impressionanti nelle valli del Verbano (Verzasca, Centovalli, Vallemaggia, Vigezzo e Cannobina). I primi spazzacamini in assoluto furono i Vigezzini, che troviamo in giro per l’Europa nella prima metà del 1500. Determinante fu sempre stato in questo mestiere l’apporto dei bambini i quali, con la loro esile statura, riuscivano ad infilarsi sulle cappe e ad assicurare con la raspa e lo scopino, che maneggiavano al buio, a tentoni, avendo il capo avvolto dalla “caparüza”, berretto privo delle aperture per gli occhi, un lavoro particolarmente accurato. Per mesi poi i bambini restavano senza potersi lavare, perchè più erano sporchi e più davano l'impressione di essere diligenti. Immaginate poi la paura del buio, la claustrofobia, i maltrattamenti, le ferite e le sbucciature non curate, la fuliggine sulla pelle e nei polmoni per mesi…
All'inizio del '900 erano diventate popolari le cartoline e i calendari con foto patetiche del bambino nero con la sua raspa e i vestiti laceri. Le mamme di città additavano i piccoli valligiani ai loro figli per richiamarli alla disciplina: se non facevano i bravi, li avrebbero fatti portar via «dall'uomo nero». Il fenomeno dei piccoli «rüsca» terminò da solo, tra il 1940 e il 1950, con la scomparsa dei caminetti, sostituiti dalle stufe e dai moderni sistemi di riscaldamento.
Magari provate a guardare qualche puntata di questo anime, le trovate anche su You Tube. Provate a mettervi nei panni dei bambini che vedete, pensate alla vostra infanzia e a quella di questi bambini. Provate a pensare che quello che state vedendo non è un cartone, ma è stata realtà.